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WindtexTour Inferno del Nord – Terza Sfida: tra le...

22 febbraio 2017 Comments (0) Windtex Tour, Windtex Tour 2017

#WINDTEXTOUR INFERNO DEL NORD – Seconda sfida Giro delle Fiandre

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Inferno del Nord: Giro delle Fiandre

C’è una scintilla che scatta negli occhi di ogni amante del ciclismo quando si nomina il Giro delle Fiandre. E’ la lucida follia di chi si appresta ad osservare, consapevolmente, uno degli spettacoli più intensi ed emozionanti che va in scena la quattordicesima domenica di ogni anno. Folle come il percorso che si avvinghia su se stesso in una ostinata rappresentazione terrena di come ci immaginiamo l’inferno con i suoi gironi. Se esiste il concetto di “Inferno del Nord” lo dobbiamo a questa corsa e alla sua sorella maggiore (ma solo per motivi anagrafici) Parigi – Roubaix.

E’ dunque lastricato di pavè l’inferno?

Non pare domanda da farsi, a un fiammingo. Anche un appassionato modesto come chi vi scrive forse trova tutto sommato più infernale la vita là fuori, dove finisce il pavè e inizia l’asfalto dritto e largo delle autostrade che portano via da questo angolo di mondo intriso di fango, sudore e fatica dove si sono scritti nel bene e nel male i destini di intere generazioni di atleti.

Sean Kelly, ad esempio – che di palmares ne sa qualcosa- come contrappasso terreno per non aver mai vinto il Giro delle Fiandre, si ritrova a commentarlo tutti gli anni per Eurosport.

• Anche il grandissimo Bernard Hinault, se non il più grande dopo il “cannibale” Eddy Merckx (che l’ha vinta “solo” 3 volte), colpevole di non aver mai fatto suo il Fiandre, ha avuto da dire a riguardo in una delle sue citazioni più celebri “[…]che cosa abbiamo fatto per meritarci questo inferno?“.

Non c’è spazio, e questo non è il luogo, per riscrivere l’epopea di questa corsa che trascendendo il ciclismo e intrecciandosi con la Storia di questa regione, si è trasformata già dalle sue prime edizioni in un evento di massa che porta sulle strade, secondo stime prudenti, quasi il 15% dei fiamminghi.

Se appare riduttivo affrontare la questione dal mero punto di vista tecnico, da qui dobbiamo partire per provare a capire la “Ronde van Vlaanderen“, almeno quella degli ultimi decenni di ciclismo moderno. Quell’apparentemente insensato zigzagare nel cuore delle Ardenne fiamminghe alla ricerca delle ultime anacronistiche mulattiere in pavè che si arrampicano su quelle brulle colline battute da vento e maltempo è in realtà il disperato tentativo di preservare l’anima di questa corsa che deve indicare, di anno in anno, l’eletto a cui gli dèi hanno riservato gambe, fortuna e coraggio per domare gli elementi.
Faremo così anche noi in un pellegrinaggio che prenderà il via da Oudenaarde, l’attuale sede di arrivo, fino al Bosberg e a Meerbeke, il sobborgo di Ninove dove per quasi 40 anni la corsa ha avuto il suo epilogo, in un altrimenti anonimo e per nulla affascinante stradone di periferia, in totale e probabilmente non casuale contrasto con la grandeur francese del Tour e i suoi Campi Elisi.

Al di là dei gusti personali (ed in fatto di inferno pare forse velleitario averne) non avrebbe avuto senso cercare di decifrare la “Ronde” partendo dalle ultime edizioni con la nuova formula (per semplificare) Oude-Kwaremont/Paterberg ripetuta fino allo sfinimento in una gara a eliminazione. Da questi due muri però cominceremo il nostro viaggio.

Oude-Kwaremont

L’Oude-Kwaremont è un muro atipico delle Fiandre per lunghezza (2,2 km) e relativamente dolce pendenza (la massima arriva all 11%) di cui solo l’ultima parte in pavè.

Paterberg

Diverso invece il Paterberg: cortissimo (400m) ma con rampe fino al 20%. Paterberg che fino al 1986 era una strada sterrata che portava in un fondo il cui proprietario, grande appassionato, decise di lastricare a pavè nella speranza (esaudita) di vederla inclusa nel circo infernale del Fiandre. Tanto zelo ben ripagato (come spesso sono i patti col diavolo) al punto che oggi sul suo ultimo drammatico passaggio si consuma il duello finale per consacrare il vincitore.

Verso Nord-Est

Dal Paterberg verso nord-est proseguiremo invece alla ricerca del Koppenberg ossia “la collina delle teste” (così chiamano i fiamminghi la superficie dei cubi di porfido- se non è una immagine infernale questa!-). Stradina maledetta dove si sfiorò la tragedia nel 1987 quando Jesper Skibby in fuga venne urtato da una macchina dell’organizzazione che lo scavalcò schiacciando la sua bici e -quasi- le sue gambe rimaste legate ai pedali. Per 15 anni questi 600 metri con tratti al 22% (che ne fanno, oltre al fondo particolarmente sconnesso, probabilmente il muro più ostico di tutti) furono banditi perfino dall’inferno delle Fiandre, per ritornare in una veste un po’ meno pericolosa, leggermente più larga e con un fondo rinnovato, solo nel 2002. Capirai che consolazione.

Ogni muro una rasoiata

per i corridori e per noi, piccoli mortali alle prese con salite che non sono vere salite ma impennate illogiche (non sanno dell’esistenza delle curve da quelle parti?); discese che non sono vere discese e non sempre cominciano quando, bontà sua, la strada ritrova l’asfalto; stradelle e improvvise svolte, dove ad ogni crocicchio spuntano decine di indicazioni specialmente per l’esercito di ciclisti e cicloturisti che affollano le vie della storia della bicicletta.

Dopo il Koppenberg il Taaienberg, dopo il Taaienberg l’Eikenberg, dopo l’Eikenberg il Molenberg, e poi il Leberg, e il Berendries…
Una processione, o meglio, una “Via Crucis” per usare la metafora particolarmente efficace di Andrea Tafi, che non ha bisogno di presentazioni.
Pietra dopo pietra le energie che già si assottigliano per effetto delle pendenze mai tenere rendono ogni pedalata una conquista dolorosa. Non per tutti. Non per Johan Museeuw, venerato con il soprannome di “Leone delle Fiandre”, anche se un soprannome del genere nelle Fiandre significa l’equiparazione ad una sorta di semi-dio, e non solo un vezzo giornalistico. Museeuw i suoi tre Fiandre li ha costruiti tutti qui in questi pochi chilometri fra il Berendries e il Tenbosse, entrambi in asfalto. Muri meno spettacolari, dunque, ma ugualmente decisivi per una corsa che sfibra e che non ha mai vissuto di interpretazioni tattiche univoche e ben definite.

Nell’approcciarci dunque al Muro per antonomasia, il Muur van Geraardsbergen, il muro di Grammont per i francofoni, o più semplicemente il Muur, ci sarà di certo una certa emozione.
La strada inizia a salire piano, dal centro della splendida cittadina di Geraardsbergen. Il pavè davanti alla chiesa di San Bartolomeo è quello della festa, ma uscendo dal paese e svoltando su Oudebergstraat la pendenza (20%) e le pietre richiederanno ancora un ultimo ed estremo atto di dolore prima di giungere alla cappella che segna la fine dell’agonia e della nostra avventura.

Con nostalgia ripenseremo (solo una volta staccati i piedi dai pedali) a cosa significa aver cavalcato su queste pietre viste per tante volte in TV. Il paesaggio sarà familiare, mancherà solo la straordinaria cornice di pubblico che accompagna i grandi. Ma è sempre dal silenzio di una pedalata solitaria che nascono le grandi storie di ciclismo.
Da qui in poi sarà solo una formalità scavalcare l’ultimo “dolce” muro, il Bosberg, e arrivare a Meerbeke cercando sull’asfalto la linea sbiadita dell’arrivo dei Fiandre che furono di Museeuw, Argentin, Bartoli, Tafi, Boonen e Cancellara. Un giorno forse quella linea tornerà di nuovo ad essere tracciata per incoronare il Re delle Fiandre.

 

Scopri il tragitto che faremo qui su Strava.

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